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Intervista a Daniele Nardi

Assieme al famoso alpinista Daniele Nardi cercheremo di capire cosa spinge un individuo a compiere sfide al limite del possibile, a patire freddo e intemperie, ad affrontare fatiche inumane alla ricerca di qualcosa che non può essere riassunto nella banale conquista di una vetta.

BeeClimber: Ciao Daniele e grazie per averci concesso questa breve intervista. Forse anche in lontana assonanza con quello che è l’alpinismo, sopratutto himalayano, dove si alternano momenti di paura gioia e divertimento a momenti molto brutti, pensavamo di farti una domanda seria e una meno seria. Però partiamo da te, presentati in due righe!

Daniele: Sono nato a Sezze, in provincia di Latina. Intorno al mio paese ci sono tante belle falesie di roccia, dove poter scalare e diventare bravi. In realtà la mia passione erano le grandi vette. Mi sono dovuto inventare da me cosa significasse gradi duri di arrampicata, oppure cosa fossero “8.000 metri” perché nel contesto in cui sono nato non avevo mentori da ascoltare e seguire. Attraverso i grandi ho potuto trovare ispirazione: Bonatti, L failee, loretan, Pereau, Kukucka, Renato Casarotto, Casimiro Ferrari, etc. che hanno colmato le mie giornate di lettura e di studio per capire come affrontare le grandi sfide. Ho giocato per quasi dieci anni a pallacanestro poi, quasi arrivato alla maggiore età, ho deciso di cambiare attività. Non mi sento un alpinista con la A maiuscola, perché ho sempre avuto un approccio di grande rispetto e umiltà per l’ambiente, anche se – ultimamente – mi accorgo che il mio livello si è alzato molto e molte persone tendono a vedermi così.

L’Alpinista Daniele Nardi

Come mi è venuto in mente di fare l’alpinista? Non c’è un motivo preciso. Mio nonno faceva il pastore sui monti Lepini, mio padre ci ha sempre avvicinati alla montagna… poi di punto in bianco ho deciso di iniziare a scalare, con le mie forze, con una corda da imbarcazione e degli imbraghi presi in prestito dall’azienda di automazione industriale di mio padre. Solo successivamente e per fortuna abbiamo deciso col mio amico Piero Rosella di fare un corso di arrampicata. Li ho capito che il mio intento era quello di arrivare sulle grandi vette.

BC: Nell’ambiente di montagna, a volte, anche il più piccolo sbaglio può avere conseguenze catastrofiche, mentre fallire nel tentativo di conquista di una cima, può rappresentare la salvezza. Nelle società a bassa quota, invece, il fallimento è considerato alla stregua di una macchia da rimuovere. Secondo la tua esperienza, quanto è importante la capacità di fallire?

Daniele: È chiaro che quando si sbaglia in montagna il prezzo che si può pagare è molto caro, anche con la vita. Sul fallimento, in generale, se rimango in vita senza raggiungere la vetta, allora è come riempissi il mio CV di mancati traguardi, ma secondo me nel fallimento dovremmo tutti avere la capacità di raccogliere quella determinata esperienza e tramutarla in un’arma per il futuro. Non mi piace il termine fallimento, ma mi piace il concetto di viaggio verso una vetta. In questo senso non esiste fallimento, ma esperienze di vita che ti permettono di migliorare sempre di più e di arrivare a realizzare il proprio sogno. Certo, non sono un’ipocrita e quando si sbaglia o si fallisce una spedizione non si raggiunge un obiettivo… ma la capacità di tramutarla in un’esperienza da utilizzare nel futuro mi piace di più. Spero che questo sia un tema che le nuove generazioni affronteranno in maniera decisa, in modo tale che sia proprio il valore della rinuncia al successo nell’alpinismo uno dei fondamenti basilari per comprendere che la vita è più importante di qualsiasi altra cosa. Se uno non è capace allora venderebbe l’anima al diavolo pur di raggiungere la vetta. Questo non è il mio stile: ho rinunciato alla vetta ogni volta che ho percepito un rischio chiaro per la mia vita oppure per non mettere in pericolo la vita di altre persone. Diverso, è quando sono in solitario, quando posso spingere al limite tutte le mie capacità e il livello di accettazione del rischio diventa molto più alto, ma quella è una scelta personale. Per farlo nella maniera più oggettiva possibile ci sono tutta una serie di esercizi mentali che si possono fare per  permettere di guardare e di osservare con i propri occhi sempre in maniera migliore.

“Scala te stesso” è il mio programma di formazione live che partirà nel 2019 e che parla proprio di questo: la voglia di crescere personalmente viene condensata  attraverso gli insegnamenti che la montagna mi ha dato in questi anni, sperando sia un modo per tradurre le azioni che facciamo naturalmente in montagna e che possano essere di successo anche nella vita.

BC: Ok, sei forte sopra i 5.000 metri, su neve, ghiaccio, misto… maaaa, come te la cavi su roccia?? Secondo noi l’8a non lo fai. 🙂

Daniele Nardi nella falesia di Norma

Daniele: Eh eh su roccia… me la sono cavata molto bene in un periodo della mia vita. Mi piaceva, mi divertiva. Per quanto riguarda il grado, non era eccelso: 6c+ a vista ossia 7b+ lavorato. Ciò nonostante, ho scoperto che questi gradi in falesia ti permettono in montagna di fare più o meno tutto. Devi essere capace di scalare sul tecnico e di portare questa attività in altissima quota. Mettere insieme capacità aerobiche e tecniche (su roccia sono quelle più indicate). Con il 6c a vista riesci a fare tantissime cose in quota. Per il resto, mi sono tolto delle belle soddisfazioni in grandi vie di roccia, sulle Dolomiti e sulle Alpi, come il pilone centrale del Frené al monte Bianco, salito con Roberto Delle Monache e Lorenzo Angelozzi o anche la Sud de la Noire al Monte Bianco. Quindi… come me la cavo? Non è il mio elemento eccelso ma me la cavo 🙂 

BC: Identità: quando si arrampica, si scala, o si raggiungono gli 8.000 metri, si dice spesso che si è in simbiosi con la Natura. Esiste qualcosa di inspiegabile che sembra fonderci l’un con l’altra. Questa sensazione dura fin quando non è la stessa Natura a metterci di fronte a noi stessi: situazioni di crisi estreme, bivi, i nostri limiti contro l’imponderabile. Quanto è importante la propria identità nei momenti di crisi? Quando e come lavora l’Io in momenti come questi?

Daniele:  Sono convinto che la natura non ci metta a contatto diretto con lei… l’anima ce la mettiamo noi. Indubbiamente la montagna ci mette nella condizione di poterci liberare e fondere totalmente con lei, ma se non c’è la condizione iniziale, la volontà di vivere la natura in questa maniera, allora il distacco con essa è netto e diventa semplicemente un’azione sportiva. Poi ci sono le crisi nelle situazioni estreme, che fanno uscire fuori quell’abilità che derivano chissà da cosa, e che ci permettono di superare grandi difficoltà. Se invece non riusciamo a gestire le difficoltà, allora esse rappresentano delle rotture con gli altri elementi della spedizione, per cui la propria identità non è poi cosi importante nei momenti di crisi in montagna… ma è importante sapere in maniera immediata, cosciente, quali siano le situazioni migliori per uscirne vivi in determinati momenti. Quindi quello che sono in quel momento ha un’importanza “relativa”, è quello che realmente faccio che diventa fondamentale. Indubbiamente, se si affronta la montagna dal punto di vista spirituale, sarebbe forse più semplice andare a ritrovare la nostra identità e comprenderla fino in fondo. A me è successo più volte, ed è stato bello riportarmelo a casa. Questo ha permesso di non dimenticare che la mia unità fondamentale è uscita fuori in un determinato momento, e questo consente di ricordarlo quando le situazioni sociali tendono a spegnerla e a farcela dimenticare.

BC: Tu hai visto luoghi invidiabili, dove tutto sembra fermo da millenni. Posti remoti, culture differenti. Secondo quella che è la tua esperienza e considerando anche il posto in cui sei nato, esiste una cultura che possa fungere da denominatore universale al rispetto dell’altro e della Natura?

Daniele: Indubbiamente, l’insieme di regole che potrebbe costituire una base culturale nei confronti delle persone, potrebbe essere la Dichiarazione universale dei diritti umani. Questi 30 diritti che appartengono a tutti noi per il solo fatto di essere nati. Se si riuscissero a seguirli completamente, le cose andrebbero bene in tutti i campi della nostra vita sociale.

Ciononostante penso di aver estrapolato delle idee che permettano alle persone di vivere meglio, questo si. Di averle dedotte dalla vita in montagna, dall’alpinismo o dalle situazioni estreme, questo sì. Un esempio semplice: se vado in montagna e faccio degli errori, allora è un progetto che visto dall’esterno è fallimentare, ed è il prezzo più grave da pagare. Tuttavia, se noi proviamo ad immaginare un’attività imprenditoriale di persone che si mettono insieme per perseguire un obiettivo, nel momento in cui il progetto fallisce o si blocca, allora le persone dentro se stesse si sentono morire un poco alla volta. La metafora è quindi diretta: si può trovare un modo di trasporre delle idee che in montagna funzionano molto bene e di applicarle alla vita quotidiana, che di fatto ritornano sempre al rispetto dei diritti umani, al rispetto delle persone, ad avere fiducia l’uno nell’altro, nell’essere trasparenti verso le persone, di non mentire. Principi che potrebbero consentire di avere rapporti reali e di riuscire a portare a compimento le proprie ambizioni nella vita.


Questo cortometraggio racconta il punto di vista del capo-spediizone Daniele Nardi sulla spedizione Trans Limes Project 2017, l’esplorazione dell’area del Kashmir Pakistano chiamato AKA Karakorum

In Tibet o in Nepal, il modo di vivere la vita è molto accattivante, l’essere spirituale è molto più importante e potente. È bello vedere come i bambini sono incredibilmente poveri ma molto più felici dei loro coetani occidentali. In generale, il fatto che io non abbia avuto nel mio luogo natio una grande cultura di montagna è stato un punto positivo perché mi ha spronato ad interpretare le cose a mio piacimento e a capirle in modo diretto, senza prenderle da altri. Un esempio pratico: prima volta sul gran sasso, avevo le informazioni del club alpino locale, che diceva che la via era davvero tosta e lunga. Poi, quando andai lì e faticando arrivai sù, arrivato in vetta mi chiesi “dove sono le difficolta”? Ed ero da solo, ed era sconsigliato salire in solitaria. Questo è il punto: avere troppe informazioni esterne ci fa vedere e prendere le cose in modo asettico.

BC:  C’è gente, anche tra noi climber, che per quanto faccia grandissime prestazioni in falesia (poi tanto arriva Ondra e sgrada tutto), se sale le scale di casa gli viene il fiatone. Te ti spari millemila metri di dislivello vestito come un astronauta a quasi 9.000 metri di altezza… Ci dai qualche dritta sull’allenamento da seguire? Non stiamo scherzando eh! Non vogliamo un trattato, giusto qualche riga! Grazie!!

Daniele: Qualche suggerimento? Secondo me il punto chiave è riuscire a capire cosa si vuole raggiungere: dove vogliamo andare è la parte più difficile del piano. Darsi degli obiettivi a medio lungo termine, e rispettarli. Trovare il motivo che fa continuare. Dal punto di vista pratico, affidarsi a un buon coach. Si inizia dall’atletica leggera, in piano, poi in salita e infine in dislivello. A me sta andando molto bene, in base al piano che mi ero prefissato e sono molto felice perché sono riuscito a superare due infortuni che ho avuto alle dita e alla cervicale (stavo scalando troppo!). Ora siamo nella terza fase e devo spingere al massimo per trovarmi pronto per la prossima spedizione. C’è un altro approccio per chi non si vuole mettere a scrivere e a definire gli obiettivi, consiglio: ogni minuto che si impegna è un minuto speso per raggiungere un determinato obiettivo nella propria vita, in generale. L’allenamento che – magari – parte da 10, 15 minuti di corsa diventerà cosi bello farlo che ci permetterà di passare a una seconda fase e poi saremo cosi felici da passare ad una nuova tabella serrata. Correre per diletto è facile, correre per raggiungere risultati è molto più complesso. Corriamo quindi per la felicità di farlo, accumuliamo minuti… da un certo punto in poi fissiamo questi numeri: saranno obietti raggiunti!

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